lunedì 21 aprile 2014

La nobildonna e il nobilduomo di Milano (Romanzo Rosato) - Capitolo 1: La secesiùn

Quella mattina Sarah si alzò dal letto prima del solito. La sua stanza era quella di una ricca borghese nobilitata di recente. Era una nuova giovane nobildonna. O una nuova nobilgiovane. O una nuova nobilragazza. O una nobilnuova. In ogni caso era nuova. Era fresca. Era nuova fresca, di giornata.
Si chiamava Sarah, come il deserto meno una acca e una a. O, forse, come Sara più un’acca. Ai posteri l’ardua sentenza.
Viveva a Milano.
Quella mattina anche Frank si alzò dal letto prima del solito. Ritornava tardi dalle feste. O, forse, presto. Per un giovane nobilduomo di Milano era tardi. Per un contadino era presto. Per Gigi Marzullo… bè… veramente non saprei, ma il problema non sussiste, dato che Marzullo all’epoca non esisteva.
Perché due giovani nobili nella Milano Ottocentesca (ma ambientata nel Seicento) avevano nomi stranieri? Non lo so. Del resto, io di romanzi rosa non ho mai capito niente.
Quella mattina il destino voleva che i due giovani si incontrassero.
Già. In una chiesetta situata al confine tra Lombardia e Veneto si svolgeva un doppio funerale. Ma partiamo dal principio.
Da mesi, ormai, Milano era flagellata dalla peste… Ma questa è un’altra storia.
Nel vicino Veneto, infatti, stava avvenendo un qualcosa di ancora più grandioso.
In quel periodo, infatti, era facile udire un discorso del genere in qualunque piazza veneta:
«Alura, questa secesiun?»
«Secesiun? Cos’è ghe xè?»
«Come “cos’è ghe xè”?!? Xè’l nostro sigo de libartà!»
«Ma libartà da coxa?»
«Ma dalla dittatura de l’Italia, caxxo!»
«Ma che caxxo te dise? L’Italia xè soltanto un’idea, no l’esiste ne la realtà! No xè mai esistita! E ancor de meno li italiani!»
Questo era il clima di quel periodo nelle regioni del sud-Austria. Molti Lumbàrd vedevano nella richiesta di indipendenza dei Veneti (o “Terùn del Nord”), oltre che una follia (chiedevano l’indipendenza da uno Stato mai esistito e mai Stato Unito), una minaccia al progetto del Viceré lombardo Bobo I del Maròn chiamato “magna-regione-Sud-Austriaca”.
E fu così che scoppiò la guerra tra le due regioni confinanti. I Veneti diffusero le proprie teorie di indipendenza e libertà attraverso i così detti “Cujùn de Dolehances”.
Dolehances era un villaggio veneto vicino Venezia. Una porzione degli abitanti del paesino era chiamata Cujùn, perché componeva una piccola minoranza che credeva di rappresentare i desideri dell’intero Veneto, anche quelli dei mediamente intelligenti.
Così la guerra tra Lumàrd e Veneti scoppiò e molti giovani, mossi da forti ideali, presero parte alla guerra, sull’uno o sull’altro versante.
Tra questi spiccavano due nobili di Milano, Don Dan e Don Din, l’uno amico di Frank, l’altro amico di Sarah.
Ma nelle teste di Don Dan e Don Din scampanellavano ideali ben diversi: il primo era un fermo sostenitore del Maròn, mentre il secondo sosteneva l’indipendenza del Veneto.
Perché a Don Din, Milanese Doc, rintoccava nel cervello il desiderio di un Veneto libero?
E’ presto detto: infatti, il cuore di Don Din risuonava solo per la bella Beatrice “Bea” Mona, figlia dell’indipendentista veneto Valerio Inquisitor Mona, conosciuto come “Và In. Mona”.
E fu così che Don Dan e Don Din si trovarono in guerra l’uno contro l’altro.
La guerra porta sempre e solo dolore, disperazione e morte. Così, nell’ottavo mese di guerra, i due giovani furono impegnati nel duello finale.
«Don Dan, sta per battere il tuo ultimo rintocco!»
«I tuoi suoni di gioia, caro Don Din, stonano più di una campana!»
«Oh, ma bravo! Sei originalissimo! E’ da quando siamo apparsi che l’autore cerca di inserire battute sui nostri nomi legate alla campana, senza però nominarla apertamente, e tu lo sputtani così! Che finezza!»
«Basta, Don Din! Hai osato dire che non ho finezza! Se non avessi l’armatura piangerei come una ragazzina, ma ho paura di rovinarmi il trucco, ma sappi che un’offesa così non mi era mai stata fatta da quando avevo dieci anni! Dunque pretendo la mia vendetta, e l’avrò, in questa vita… o nell’altra!»
Già, infanzia difficile quella di Don Dan. A dieci anni un suo amico gli disse: “Mio padre è più colto del tuo perché ha già letto tutta la Divina Commedia!”
Il piccolo Don Dan non riuscì a deglutire per tre mesi. Così fu costretto ad un intervento di tonsillectomia, il primo della storia. Da quel momento, per un lungo periodo, tutti i bambini che subivano anche un leggero insulto dai propri coetanei venivano privati delle proprie tonsille, come prevenzione.
Intorno al 2000 si intuì che le tonsille, probabilmente, potevano avere una qualche utilità. Da quel momento furono operati solo i bambini che subivano insulti dal “vai a farti operare di tonsille, ché ti sto insultando” al “tu sei stato studente quando il ministro dell’istruzione era la Gelmini”.
Lo scontro tra Don Dan e Don Din era iniziato. Il primo, munito di arco e frecce, tentò di colpire l’altro all’orecchio destro in modo da renderlo semisordo. Già, Don Dan era molto astuto. Ma poco preciso: la freccia sfiorò Don Din, tagliandogli il codino. La freccia proseguì il suo percorso. Così come il fato.
Don Din a quel punto prese il sopravvento sullo sconvolto e deluso avversario. L’armatura di Don Dan ricopriva tutto il corpo del guerriero.
Eccetto un punto: il punto di congiunzione tra mano e avambraccio, il polso. Per la precisione il destro.
Don Din si avvicinò con la velocità della tartaruga che insegue la lumaca e, con un taglio tanto netto da essere esentasse, tranciò il polso destro del malcapitato Don Dan.
Per curarsi la ferita, egli la infilò in bocca per succhiarsi via il sangue, come quando ci si fa un taglietto sul dito, ma il fiotto di sangue gli occluse le vie respiratorie. Si dice che nei pochi istanti che precedono la morte, si rivive la propria vita. Don Dan ricordò solo un periodo: i tre mesi nei quali non poteva deglutire.
Ecco, in quel momento la situazione era identica. Dunque pensò “forse riuscirò a resistere tre mesi, ma poi chi mi toglierà il sangue dalla gola?” e allora si lasciò andare.
Don Din già cantava vittoria, quando il fato riprese il suo cammino. E, con esso, la freccia.
Essa aveva compiuto l’intero giro del mondo e si conficcò alle spalle di Don Din, che cadde al suolo.
«E così con una freccia (che ha attraversato tutto il mondo) io muoio.»
Fu in quel momento che ogni dubbio sulla sfericità della terra scomparve.
Giunsero immediatamente i soldati di ambo le parti e videro la tragedia davanti ai loro occhi: due giovani avevano perso la vita, a causa di una guerra idiota voluta da dei perfetti idioti, dei Cujùn.
Si sentirono migliaia di urla “Don Din! Don Dan! Don Din Don Dan Don Din Don Dan Din Don Dan Dan!”
La guerra si fermò e tornò la pace tra Lumbàrd e Veneti. A cosa era servito versare sangue giovane, se non ne aveva potuto giovare nessun vampiro?
Il Maròn capì l’errore e diede le dimissioni, pronunciando l’ormai storica frase:
«Una triste pace porta con sé questa mattina: il sole, addolorato, non mostrerà il suo volto.
Andiamo a parlare ancora di questi tristi eventi. Alcuni avranno il perdono, altri il castigo.
Ché mai vi fu una storia così piena di dolore come questa di Don Din e Don Dan.»
Del Maròn, dei Cujùn, della secesiùn, non si sentì parlare mai più perché l’indipendenza era una bojata ma soprattutto perché di attualità traslata nel passato si parla solo in questo primo capitolo, nei prossimi, quand’anche ci dovesse essere della satira, essa sarà sempre generalizzata e mai così attualizzata come in questo caso.
Ma soprattutto, d’ora in poi, ampio spazio l’avrà il vero protagonista della storia: l’amore.
Perché se il fato aveva portato via la vita a due giovani, stava per donare l’amore ad altri due.
Infatti Frank e Sarah, quel mattino in cui si erano alzati dal letto prima del solito, si recarono nella chiesetta a confine tra Lombardia e Veneto, in cui si celebrava il funerale dei loro amici, Don Din e Don Dan.
Quando suonarono le campane, esse sembravano pronunciare il loro nome “Don Din Don Dan Don Din Don Dan…”.
All’uscita dalla chiesa Frank scivolò sulla cacca di un piccione e cadde con il naso nel seno di Sarah.
Mai nessuno le era arrivata così vicino al cuore.



NdA: Lo so che a capo della Lega Nord c’è Salvini e non Maroni, ma vuoi mettere?

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